domenica 10 marzo 2013

La testimonianza di Maria, dalla Moldavia in Italia per fare la badante

In classe, durante il corso di intercultura, stiamo leggendo la lunga storia di Maria. Si tratta di una testimonianza forte, che ci fa riflettere molto. É un pezzo vero di vita, scritto di pugno dalla donna, di origini moldave, ma costretta a trasferirsi in Italia perché senza lavoro e con cinque figli sulle spalle. Seguiranno, a breve, i nostri pensieri.




Tione

Mai avrei pensato di trovare la forza per stare lontana dai miei figli per 5 lunghi anni. Se qualcuno me l’avesse detto prima, gli avrei risposto che è impossibile. Ma ora credo che tutto è possibile nella vita di un essere umano. Ero arrivata da poco e Tione mi appariva ancora come una sconosciuta piena di misteri. Il vento soffiava appena, facendo cadere le foglie gialle dagli alberi. Volteggiavano leggere finché lentamente si posavano per terra. Seguivo il loro percorso con lo stesso stupore con cui osservavo il paese che stava davanti ai miei occhi in quel giorno d’autunno dell’anno 2004. 


Ma cosa mancava di mistero nella mia nuova vita? Soltanto i miei pensieri e i miei sogni, forse. Mi trovavo in macchina. Guardavo gli alberi che si perdevano alla mia vista e gli edifici che cambiavano molto velocemente. Mi sentivo a disagio per via dei miei vestiti eleganti, perché non riuscivo a capire tutto ciò che sentivo dire intorno a me, per il confronto tra la mia vita trascorsa e la mia nuova vita.

In macchina, oltre a me, c’erano la signora Marcella e suo marito Dario. Mi avevano parlato il giorno prima della loro intenzione di portarmi al ristorante per mangiare la pizza. Ero da poche settimane la badante della madre di Marcella. Una vecchia signora che parlava poco. Usava i gesti. Meglio per me, che di italiano sapevo ben poco.

Nel ristorante notai subito il contrasto dei miei abiti con quelli della gente seduta ai tavoli con jeans, magliette comode e scarpe da ginnastica. Notai anche che la gente parlava e sorrideva poco. Il ristorante era carino, intimo, in contrasto con i nostri ristoranti moldavi, spaziosi, ma con pareti e tavoli austeri. La differenza era che da noi la gente scherzava, rideva molto e beveva ancor di più. Si andava al ristorante per dimenticare le giornate di lavoro pesante e le amarezze. Quei momenti trascorsi tra i camerieri che giravano con i piatti in mano e la nostra musica tradizionale diventavano speciali. Qualche coppia ballava. Si immergevano talmente nel ritmo della musica da far pensare solo al bello della vita.

Tornai con i pensieri al presente perché mi sentii chiamare:
- Maria, mi diceva Marcella, che pizza vuoi mangiare e cosa vuoi bere?

La guardai smarrita per un po’ di tempo e poi decisi di chiederle aiuto.

- Lei può aiutare me per scegliere?

- Pizza margherita, capricciosa, prosciutto e funghi, diavola…

Guardai ancora Marcella e poi il menù e, infine, indicai con la punta del dito quella con prosciutto e funghi. Avevo sentito la signora anziana dire a Marcella di comprarle del prosciutto al supermercato. Lo avevo assaggiato anch’io e mi era piaciuto. Mangiammo in silenzio, senza la musica, senza allegria, ciascuno assorto nei propri pensieri. Io pensavo alla vita lasciata di recente e a quella che dovevo affrontare, loro probabilmente al loro presente e al loro futuro.
Mi sentivo catapultata da un mondo all’altro. Dalla pianura moldava ai monti del Trentino. Dalla vita dell’est Europa alla vita occidentale. Dal passato al presente.

Mi chiamo Maria. Vengo dalla Moldavia e vivo in Trentino da 5 anni. Ho fatto e faccio tuttora la badante o, per meglio dire nel linguaggio moderno, l’assistente agli anziani. Non ho mai avuto dei documenti legali. Non ho mai toccato un permesso di soggiorno su cui fosse scritto il mio nome. Per fortuna non sono mai stata fermata dalle forze dell’ordine nei miei spostamenti in paese o nei miei tragitti da Tione a Trento o a Bolzano.

La mia vita in Italia è segnata dal dolore continuo provocato dalla lontananza dei miei figli. I miei pensieri viaggiano senza sosta tra la vita dei miei figli e quella che devo affrontare giorno per giorno qui. La mia mente si dibatte tra ricordi e realtà, tra emozioni e sofferenze. Mi sembra di vivere due vite parallele, una virtuale a distanza e l’altra qui, dove sono fisicamente.

I ricordi del passato li tengo chiusi nel mio cuore come in uno scrigno. Belli e brutti. Quelli che mi fanno male, con furia li sospingo indietro, lasciando emergere soltanto quelli dei figli.

Ho 5 figli in Moldavia. Il più piccolo si chiama Catalin e ora ha 7 anni. Frequenta la prima elementare. La scuola si trova a 2 chilometri da casa. La percorre solitamente con la bici che gli ho mandato qualche tempo fa. Di lui si occupano i fratelli più grandi. E’ venuto al mondo, infatti, dopo 10 anni dalla nascita di Alina, seguita da Dimitrie, Victoria e Mihai.

I miei figli oggi li vedo nelle foto o nei video ripresi dalla fotocamera che ho regalato loro. Ma più che aver fatto un regalo a loro, ho fatto un regalo a me stessa. Le foto li mostravano immobili e io volevo sentirli parlare, vederli muovere…
Catalin aveva solo tre anni quando l’ho visto per l’ultima volta. L’ho salutato mentre dormiva dolcemente. Da allora sono passati 5 anni e mi sorprende, a volte, che riesca ancora a chiamarmi mamma al telefono.

- Mamma, ci sono degli aerei in Italia?
- Certo che ci sono, Catalin.

- E perché non ne prendi uno per venire a casa, solo per vederti e portarmi qualcosa e poi tornare.

- Se io venissi a casa, non potrei assicurarvi ciò che avete oggi.

- Avremo pazienza mamma, non ti preoccupare... dice allegramente Catalin.

Sentendolo, mi si stringe il cuore fino a farmi male. Anche lui è diventato grande, mi dico, ma senza convinzione, in quanto per me è rimasto sempre piccolo.
- Catalin, ora non posso ancora venire a casa…

E’ l’unica risposta che al momento ho per i miei figli.
Quando Catalin è andato a scuola gli ho comprato e mandato da qui lo zaino, i vestiti, quasi tutto insomma. Lo hanno accompagnato i miei figli più grandi, Victoria e Dimitrie. Mancavano sia la mamma che il papà. Il primo giorno di scuola è indimenticabile per tutti e anche per lui, credo, sia stato bello. Era tutto orgoglioso e camminava con fierezza accanto ai suoi fratelli. L’ho visto nel video che mi hanno mandato. Mentre lo guardavo, lacrime di tristezza e di gioia bagnavano le mie guance. Il dolore martellava il mio cuore, ma cercavo di negarlo. Davanti agli altri volevo mostrarmi fiera e forte. Forte come quando, per la prima volta, ho camminato per le vie di Trento e affrontato tutte le novità di vita nuova in un paese straniero.

A quell’epoca tutti i miei pensieri giravano intorno alla ricerca di un lavoro per guadagnare soldi e mandarli ai miei figli rimasti soli. Oggi i giorni e le notti continuano ad andare e venire così come le speranze e le paure.
Mi sento chiusa come in una botte senza via d’uscita. Dopo 5 anni sono ancora senza documenti e senza la possibilità di rivedere i miei figli. Mi sembra incredibile di aver resistito così a lungo. Non sapevo di essere così forte. Capisco sempre più che solo mettendoci alla prova riusciamo a scoprire i lati nascosti del nostro carattere. Sto cambiando. Sto imparando da questa gente che niente si può lasciare al caso. Mi sono affezionata alle montagne. Mi piace l’ordine e mi piace mantenere la parola data. Mi incanta, in generale, l’organizzazione. Tutte cose che da noi spesso mancano. Ho scoperto che dietro la diffidenza di tante persone si nasconde un carattere generoso e un animo sensibile. Non a tutti facciamo pena per il nostro destino. Spero, anzi, che anche da noi si possa imparare qualcosa.

Ho nostalgia della mia casa, del mio paese, della pianura che fila liscia fin dove, in lontananza, riesci ad intravedere l’orizzonte, qui mascherato dalle montagne. Se penso alla mia vita, mi pare che essa corra narrata lievemente da un’estranea bocca.

In Moldavia vivevo in un piccolo paese di campagna. Avevo frequentato la scuola di 8 classi nel nostro paese e altre due del liceo in un paese vicino. Mi sarebbe piaciuto proseguire con la scuola per infermieri, ma il mio percorso scolastico si è fermato a 10 classi. Ho iniziato a lavorare prima come operaia in una fabbrica, poi come ausiliaria in una scuola materna. Ho fatto perfino il muratore per due anni e ho venduto biglietti sull’autobus. Ero una ragazza carina, bassa di statura e snella. Nei miei occhi azzurri e profondi penso brillasse l’innocenza di una adolescente con tanti sogni per la sua vita. Quando avevo circa 16 anni, i ragazzi del paese cominciarono a corteggiarmi. Mi sono sposata molto giovane, così com’è tradizione in Moldavia. Il ragazzo scelto si chiamava Mircea. Era più o meno della mia stessa statura e, quando lo guardavo negli occhi, sentivo come un formicolio in tutto il corpo. Mi ero innamorata, ma, poi, con gli anni, l’amore se n’è andato, lasciando al suo posto l’amarezza per un matrimonio che affondava sempre più nel pantano della violenza del mio consorte. Mio marito è stato per tanti anni presidente della cooperativa del paese nell’epoca comunista. Quasi tutta la terra apparteneva allo stato e la gente si doveva accontentare di piccole particelle di terreno dove coltivare un po’ di patate, cipolle, verdure, etc. Il futuro di una ragazza a quei tempi comprendeva per forza il matrimonio e il crearsi una famiglia. Faceva parte della tradizione e della mentalità ereditata dalla generazione precedente. Raggiunta la maggiore età, a volte anche prima, la ragazza doveva scegliere il ragazzo che più le piaceva e sistemarsi.
Io mi ero sposata dopo tre anni di fidanzamento. Un’eccezione alla regola, forse, ma di sicuro abbiamo lasciato che le cose andassero da sé. La festa di matrimonio è durata un giorno e una notte, secondo la tradizione. La mattina del sabato siamo andati in Comune per il rito civile, nel pomeriggio in Chiesa per sposarci davanti a Dio. La sera è seguita la grande festa nel tendone costruito nel recinto di casa di mio marito. La grande parte della gente è venuta solo la sera, quando si mangia, si beve e si balla, e alla fine si regalano dei soldi, ciascuno secondo le proprie possibilità. Qui interveniva anche l’orgoglio delle famiglie, soprattutto quelle dei parenti, una specie di concorrenza tra chi regalava più denaro. C’era nei nostri paesi, e credo si mantenga tuttora, un orgoglio smisurato in tutte le cose che si facevano. Di fronte agli altri dovevi essere come loro o superiore a loro, altrimenti facevi parte del mondo delle persone anormali.
Il ricordo della mia partenza per l’Italia è ancora vivo.
Continua...

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